Ornament

Il discorso sull’ornamento costituisce uno dei temi chiave e, al tempo stesso, uno dei concetti più problematici del dibattito teorico-architettonico degli ultimi tre secoli.
Celebrato come componente irrinunciabile della pratica artistica o condannato quale “attentato” alla verità della forma, l’ornamento ha attraversato la storia del pensiero progettuale moderno, intercettandone tutte le trasformazioni, i rivolgimenti e le tensioni interne, fino alla sua spettacolare ricomparsa nello scenario architettonico contemporaneo.

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Dal XVIII fino al XX secolo, il concetto ha oscillato fra connotazioni valutative estreme che ne hanno profondamente modificato lo statuto. Tuttavia, il problema dell’ornamento – della sua definizione, della sua legittimazione e del suo ruolo all’interno della disciplina dell’architettura – è elemento costitutivo e nodo gordiano delle teorie dell’arte, fin dalle origini. Anzi, è proprio nei primi tentativi di racchiudere entro una cornice teoretica l’ambigua e multiforme pratica ornamentale, che si definiscono molte delle chiavi interpretative che segneranno le svolte cruciali del dibattito moderno e contemporaneo.
Tali idee-chiavi, divenute parte integrate del vocabolario teorico dell’architettura, sono approdate nel pensiero di età moderna “attraverso percorsi tortuosi e talvolta nascosti”, segnati da continui ripiegamenti e trasformazioni concettuali, la cui indagine in prospettiva storica appare essenziale per comprendere lo status dell’ornamento nella contemporaneità (DI STEFANO, 2006 p. 12 ).
Fondamentale per il costituirsi dei termini del discorso è, in particolare, il pensiero di Leon Battista Alberti, che dedica all’ornamentum quattro dei dieci libri del De Re Aedificatoria (Lib. VI-IX). All’inizio del VI libro fornisce la celebre, criptica, definizione: “L’ornamento può definirsi come una sorta di luce sussidiaria della bellezza o come completamento” (ALBERTI 1966, VI, 2, pp. 448-449). Assegna pertanto all’ornamento lo status di complementum/lux pulchritudinis, ovvero di elemento estraneo alla costruzione in sé ma, al tempo stesso, essenziale per la manifestazione della bellezza e per il compimento dell’opera architettonica. Alberti introduce così nel discorso sull’ornamento un rischioso paradosso che, nel corso dei secoli, non ha mancato di suscitare interpretazioni fuorvianti. La formulazione del concetto albertiano si sostanzia e si complica nelle argomentazioni successive. Servendosi di temi e immagini derivati dalla tradizione giuridica e dalla retorica classica, Alberti mette in luce le molteplici sfaccettature dell’ornamento e la sua dimensione duplice, al tempo stesso, estetica e politica. Fanno così capolino all’interno della nozione di ornamento molti dei termini che saranno centrali nel dibattito otto-novecentesco: l’ornamento come veste/abito, maschera, artificio tecnico, trucco e belletto (fucus) o, ancora, come apparato, attributo del potere, simbolo, convenzione e, infine, come elemento per “impressionare e commuovere” lo spettatore.
Come ha evidenziato Bulgarelli, la definizione albertiana dell’ornamento si arricchisce di ulteriori spunti nel confronto con le opere costruite. Qui, Alberti porta a compimento il tentativo (non pienamente esplicitato negli scritti) di andare oltre la concezione metafisica della bellezza, rivelando il carattere di immagine della sua architettura, mediante un gioco formale di simulazioni e svelamenti che, nella facciata-rivestimento di Palazzo Rucellai o nelle “forme stranianti” di Sant’Andrea, sembrano precorrere riflessioni di età moderna. In questo modo – osserva sempre Bulgarelli – “la bellezza-ornamento nel punto in cui natura e artificio si incontrano tende a coincidere con l’architettura: non è lecito sollevarla, dietro ad essa non esiste nulla” (BULGARELLI 2008, p. 32).
Le tensioni ed i sottili paradossi che la riflessione di Alberti introduce nel discorso sull’ornamento maturano lentamente nei due secoli successivi, per mezzo di parziali cambi di prospettiva e circoscritte rielaborazioni concettuali che, tuttavia, non ne intaccano i fondamenti. A partire dalla metà del XVIII secolo, l’intera disciplina dell’architettura viene invece messa in discussione e, con essa, anche lo statuto dell’ornamento che diviene oggetto di un’articolata riflessione, sulle sue origini ed il suo impiego.
Apre la strada a questa riflessione la dialettica tra decorum e ornamentum, che si sviluppa in seno alla stessa tradizione vitruviana.
Nella De Architettura e nel De Re Aedificatoria, il decorum corrisponde al principio di adeguatezza (“giusta misura”) che disciplina l’impiego dell’ornamento in rapporto al contesto. Il principio, però, contiene una sostanziale ambiguità semantica. Al termine decorum afferiscono due distinti concetti: l’uno di matrice retorica, analogo a quello impiegato da Vitruvio e Alberti, l’altro di matrice filosofica (il prepon), che invece riguarda, in generale, i rapporti materia-forma e materia-funzione. Nella definizione albertiana, l’ambivalenza del decorum/prepon non si manifesta, grazie alla posizione dominante assegnata alla venustas (cui il decorum appartiene). Dalla metà del XVI secolo, il decorum, sempre più di frequente interpretato come “adeguatezza allo scopo, alla funzione o alla classe sociale”, oscilla invece verso la funzionalità. Ne consegue una tensione tra l’ornamentum (che rimane pertinente alla venustas) e il suo principio regolatore, sempre più tangente all’utilitas.
Nel XVIII secolo questa dialettica sfocia nella formulazione dei concetti contrapposti di bellezza funzionale e bellezza ornamentale, cui Kant nel 1790 darà dignità filosofica attraverso la Critica del Giudizio. Sono così poste le premesse perché si compiano quei fondamentali cambi di prospettiva che, ridefinendo il rapporto gerarchico fra l’ornamento e gli altri elementi della costruzione, permetteranno di superare l’empasse generato dallo storicismo e dalla “crisi” del sistema degli ordini.
Segnano alcuni passaggi chiave di questo processo le riflessioni di Winckelmann, Schinkel e Quatremère de Quincy, nei cui scritti l’ornamento mantiene un ruolo centrale: “Un edificio senza ornati potrebbe paragonarsi alla sanità di un corpo nell’indigenza, che sola non si crede bastante per la felicità dell’uomo”, scrive Winckelmann (WINCKELMANN 1831, vol. VI, p. 176). L’impiego degli “ornati” diviene tuttavia subordinato ad altri aspetti della costruzione, quali il “carattere” per Quatremère de Quincy, la “grandezza dell’architettura” per Winckelmann e la forma architettonica per Schinkel. Ne consegue che l’ornamento possa anche essere escluso o, addirittura, risultare deleterio alla qualità dell’edificio (“può anzi avvenire che la deficienza d’ornamenti sia qualche volta un mezzo di decorazione”, QUATREMERE DE QUINCY, 1842, vol. I, p.360). Seppur accomunate da questa fondamentale base concettuale, le indagini di Winckelmann, Schinkel e Quatremère de Quincy percorrono strade abbastanza diverse. Confrontate fra loro, queste ricerche danno testimonianza del vario processo di frammentazione e trasformazione cui l’ornamentum della tradizione è sottoposto, una volta assorbito entro nuovi apparati concettuali.
In questo momento, a cavallo tra i due secoli, che l’equilibrio interno al concetto albertiano si dissipa irrimediabilmente, travolto dalle profonde trasformazioni della società, dei meccanismi di produzione e della stessa pratica architettonica. Indagate a proposito della loro conformità alle leggi della natura o della ragione e interrogate in merito alla loro necessità tecnica, simbolica ed estetica, le diverse “facce” dell’ornamentum rivelano la loro ambivalenza. Le tensioni si liberano e la nozione si frantuma in diverse componenti, che finiscono per acquisire connotazioni concettuali e valutative autonome.
Da questo momento, i termini del discorso, divenuti autonomi, vengono continuamente rivisti, sia nei rapporti reciproci (ornamento/rivestimento, ornamento/simbolo ecc.) che nelle valenze individuali (maschera, veste ecc.), per rispondere alle diverse inquietudini teoriche e pratiche che attraversano il dibattito della modernità.
Si delinea così una fitta rete di trasformazioni semantiche e recuperi concettuali, la cui ricostruzione costituisce oggi un’interessante prospettiva attraverso cui valutare l’intricato percorso, che da fine Settecento porta sino all’odierno Ornamental Revival.
Il percorso compiuto in ambito europeo dal concetto di ornamento come veste/abito, oggi tornato di grande attualità, può offrirne un esempio.
Per Alberti l’immagine della veste (insieme al trucco e alla maschera) specifica il principio della lux pulchritudinis. Tre secoli più tardi, Winckelmann recupera la stessa metafora per descrivere la funzione dell’ornamento (Zierlichkeit) in rapporto al Wesentliches (l’“essenziale” dell’architettura). Il portato concettuale però è radicalmente stravolto: “Gli ornati […] devono stimarsi […] come un vestito che non serve se non a coprire il nudo” (WINCKELMANN 1831, vol. VI, p. 176). Analogamente, nel 1886 Joseph Bayer, nei Moderne Bautypen, auspica per l’architettura lo svelamento del Kern (il nocciolo), attraverso la caduta del “guscio”, qui ancora inteso come involucro stilistico.
Un totale rovesciamento di prospettiva si compie, invece, con Semper. Dopo aver dato rilevanza concettuale alla pratica del trucco, alle maschere e alle stoffe nei Principi formali dell’ornamento, all’interno di De Stijl l’architetto individua nelle arti del rivestimento (incrostazione e arte tessile) le istanze fondative attraverso cui la costruzione – e la sua maschera – si sublimano per mezzo della tecnica, rendendo possibile il passaggio dalla “forma nuda” della capanna originaria all’architettura.
La teoria semperiana diventa centrale per le successive generazioni di architetti. Tanto per i rappresentanti della Secessione e per Loos, quanto per quel gruppo di architetti (Berlage, Fischer, Taut, Schumacher) che, spostando l’attenzione alla dimensione spaziale dell’architettura, arriveranno a considerare l’ornamento come “irrilevante”. Paradossalmente però, proprio mentre si gettano le premesse per la “condanna” modernista, mediante la riflessione di Semper, l’ornamento (nella fattispecie della veste-rivestimento e della maschera) torna ad acquisire una dimensione ontologica che – consciamente o inconsciamente – permea molte delle successive esperienze progettuali. Lo dimostrano le sperimentazioni materiche della Secessione (dalla Majolikahaus di Wagner, fino alle ricerche di Hoffmann e Plecnik su intonaco e rivestimenti lapidei), ma anche le pareti “lisce da cima a fondo” di Loos e le superfici preziose di Mies.
Dopo le due guerre, quando la forza delle radicali posizioni del modernismo viene meno, il rivestimento diviene oggetto di molte sperimentazioni, stimolate dal confronto con la scena artistica contemporanea (Pop, Op ecc.). In seno ad alcune di queste ricerche, la “veste” va incontro ad una ennesima trasformazione: diviene involucro, ossia elemento formalmente e concettualmente indipendente da tipo e funzione (Frank O. Gehry, Ghehry House La, 1978). L’ornamento-rivestimento, si emancipa così dalla dimensione funzionale e costruttiva dell’edificio, per acquisire una dimensione estetica e simbolica del tutto autonoma.
Nello scenario contemporaneo, l’involucro diviene invece indiscusso protagonista, al punto da portare alcuni storici e critici a ritenere che il tema dell’ornamento oggi si esaurisca quasi esclusivamente nell’involucro: “Ornament appears as an overall property of the envelope” (PICON, 2013, p.32).
La veste-involucro odierna può assumere molteplici connotazioni: pelle sottilissima (UAP+ Ned Kahn, Brisben National Airport, 2011), membrana permeabile (Sanaa, Campus Bocconi, 2019-2020), superficie iper-tecnologica (Herzog & De Meuron, Allianz Arena, 2005) oppure elemento modellato nello spazio (NOX, Maison Folie, 2004); può inoltre diventare essa stessa spazio su cui applicare o riprodurre ornamenti (texture, pattern, pellicole ecc.) o, al contrario, può identificarsi e confondersi con la struttura (Herzog & de Meuron, Beijing National Stadium, 2008). Le ragioni di questo multiforme ritorno risiedono in primis nelle nuove metodologie digitali e nella preponderante dimensione tecnologico-impiantistica degli edifici. Tuttavia, come è stato osservato, questa predilezione per l’involucro, per la dimensione tattile e per le potenzialità empatiche, risponde soprattutto ad un nuovo modo di concepire il rapporto con il pubblico. Attraverso l’involucro, l’edificio entra infatti in relazione fisica e sensoriale con lo spettatore, per impressionarlo, stimolarlo e suscitare un “effetto”. L’ornamento riacquista così una valenza estetica-relazionale.
Questa sua declinazione però, in molti casi, può leggersi anche manifestazione della società dell’immagine. All’interno del contesto socio-culturale odierno l’edificio e il suo involucro, inseriti nella spettacolarità dello spazio pubblico, divengono strumenti per la costruzione dell’immagine e del successo mediatico-commerciale del committente. Con questo ulteriore passaggio, l’ornamento-involucro torna ad acquisire una dimensione sociale, in quanto espressione della civiltà che lo ha creato e delle forze che ne condizionano lo sviluppo.
Da questa breve disamina emerge come l’ornamentum riesca a mantenere la sua forza e la sua vitalità attraverso i secoli – resistendo anche agli attacchi più duri e alle opposizioni più radicali – proprio grazie all’ambivalenza ed alla plasticità semantica dei concetti che ne costituiscono il fondamento. L’indagine dell’ornamentum può dunque essere proposta anche nella contemporaneità in una prospettiva di tipo storico-critico quale utile chiave interpretativa per definire uno statuto dell’ornamento la cui cornice teoretica mantiene la sua efficacia operativa proprio grazie al carattere sfuggente e ambiguo dei suoi fondamenti concettuali.

Bibliografia

L.B. ALBERTI, De Re Aedificatoria, tr. it. L’architettura, a cura di

G. ORLANDI, P. PORTOGHESI, Milano 1966.

M. BULGARELLI, Leon Battista Alberti. 1404-1472. Architettura e storia, Milano 2008.

J. BAYER, Moderne Bautypen, in Baustudien und Baubilder (1896), Baustudien, Jena 1919.

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A. LOOS, Ins Leere gesprochen Trotzdem, Wien-München 1962.

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J.J. WINCKELMANN, Opere (1762), a cura di C. FEA, 3 voll., Prato 1831.